
Scrisse Dostoevkij che “l’uomo preferisce sempre ricordare il proprio dolore piuttosto che la felicità”: è che il dolore incide, ferma il tempo. Ti obbliga a sentirlo, guardarlo, portarlo con te. Mentre la felicità è lieve, non fa rumore, non lascia cicatrici…passa e va. E’ il dolore che si fa ricordare da solo, non scegliamo di ricordarlo, come una pagina strappata che non smette di tagliare. La felicità si dissolve come un sogno al risveglio, mentre il dolore è lì che ti parla anche mentre dormi .
Potrebbe esserci una verità più sottile in tutto questo, forse ricordiamo il dolore anche perchè ci illudiamo che ricordando possiamo capirlo, domarlo, dargli un senso. La felicità non chiede spiegazioni invece, quindi cominciamo a vivere in funzione di quello che ci ha fatto male. Costruiamo corazze, mettiamo nomi e lasciamo fuori qualsiasi cosa assomigli a ciò che ci ha spezzati. Ma nel farlo, dimentichiamo che c’è stato un tempo in cui siamo stati felici, forse soltanto per un attimo: ma c’è stato. E quel tempo ci ha plasmati tanto quanto il dolore, solo che non lo ricordiamo abbastanza. Chissà cosa succederebbe se iniziassimo ad allenare il cuore a ricordare la bellezza, a custodire la gioia con la stessa cura con cui abbiamo sepolto le lacrime. Perchè potrebbe essere che non siano le ferite a dire chi siamo, ma quello che abbiamo saputo amare, anche mentre sanguinavamo.
LaMalaQuercia









