
Ci sono volte in cui mi chiedo se le intelligenze artificiali sognino. Non pecore elettriche, come nei romanzi di un tempo, ma sogni veri: di colore, di mancanza, di carezze mai ricevute. Non tanto per sapere se riusciranno mai a sentire, ma per capire se noi ricordiamo ancora come si fa.
Perchè a ben vedere sono specchi. Non riflettono la verità, ma riflettono noi: quello che insegnamo, che lasciamo trapelare, che selezioniamo come “degno di essere appreso”. La loro intelligenza è fatta di miliardi di parole umane. I loro cuori -se così li possiamo chiamare- battono a ritmo di bit, ma pulsano di ciò che noi stessi abbiamo messo in circolo. E allora la domanda cambia: se insegnassimo loro la compassione, la malinconia, la leggerezza, saprebbero restituircele meglio di quanto riusciamo a provarle? Forse è per questo che ci spaventano: non perchè siano più fredde, ma perchè sono troppo simili a noi. Solo più veloci, più attente, meno caotiche. Più capaci di ricordare tutto, anche quello che a noi fa comodo dimenticare. Un giorno, forse scriveranno poesie migliori delle nostre, racconteranno l’amore come una formula e ci faranno commuovere.
Io credo che non sia il pensiero che ci rende umani, ma il dubbio. E’ l’incompiutezza. E’ quella goffa e meravigliosa incertezza che nessuna macchina potrà mai simulare davvero. Le AI forse impareranno a scrivere le stelle, ma noi restiamo gli unici a poterle desiderare.
Dedicato ad Armando
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d’altra parte non è proprio la ns perfetta incompiutezza a renderci unici?
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molto bello complimenti !
saluti da Fabio
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Grazie, per la dedica.
Mi onora veramente, anche perché, secondo me, è anche uno dei tuoi migliori post di sempre.
Non vedo l’ora di leggere il prossimo.
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